sábado, 1 de outubro de 2011

SOBRE O USO DAS LETRAS “I” E “J” NA LÍNGUA ITALIANA

L'Istituto dell'Enciclopedia Italiana è stato fondato nel 1925 da Giovanni Treccani, su modello di analoghi organismi europei. Il suo primo direttore scientifico fu Giovanni Gentile.

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i, I

i, I s. f. o m. (radd. sint.). – 1. Nona lettera dell’alfabeto latino, che nell’uso ortografico odierno sostituisce anche, per tutte le parole italiane (eccezion fatta per pochi nomi proprî che conservano la grafia tradizionale), il segno j nei casi e nelle posizioni in cui questo era adoperato fino a tempi più o meno recenti; nel presente Vocabolario il segno j è limitato alle voci straniere nelle quali ha spesso valore fonetico diverso da i, per cui si è ritenuto opportuno assegnargli una collocazione propria nell’ordinamento alfabetico. Graficamente la lettera i, derivata dall’alfabeto fenicio, era rappresentata presso i Greci e i Romani da una semplice asta verticale; il punto sulla minuscola venne introdotto nella scrittura latina del tardo medioevo (dapprima in forma di sottile apice obliquo) per evitare confusioni tra la lettera i e i tratti verticali delle lettere u, n, m; l’uso diventò presto generale, ma fu sempre intes0 come una prova di eccessivo scrupolo, onde la locuz. fig. fam. mettere i puntini sulle (o sugli) i, completare una spiegazione o, più comunem., fare una precisazione, mettere bene in chiaro le cose per evitare fraintendimenti. Sotto l’aspetto fonologico, mentre l’ι (iota) del greco era esclusivamente vocale, in latino i era vocale sillabica in tutte le posizioni tranne che tra vocali (come in Gaius, maior) e all’inizio di parola davanti ad altra vocale (come in iocus, iudex), dove era semiconsonante; fenomeno relativamente tardo, dell’età imperiale, è il passaggio da vocale a semiconsonante dell’i atono davanti ad altra vocale (es. basium, varius). In italiano, la lettera può avere tre valori: a) di vocale, che può essere sillabica e tonica come in pino, pio; sillabica ma atona come pineta, piolo; asillabica come in bàita, fàida; b) di semiconsonante, come in paio, piano, quand’è seguita cioè da altra vocale, purché non sia preceduta da consonante palatale o palatoalveolare (come in braciere, usciere, vogliamo, sogniamo, dove è un puro segno diacritico, o addirittura scompare anche nella scrittura, come in ingegnere); la distinzione tra la pronuncia di i vocale e di i semiconsonante non è peraltro così netta in italiano come in altre lingue, e ragioni stilistiche o d’altra natura possono spesso intervenire a dar suono vocalico anche alla semiconsonante; c) di segno diacritico, nei gruppi cia cio ciu, gia gio giu, scia scio sciu, glia glie glio gliu, e anche nei gruppi cie, gie, scie, gnia – che si hanno in alcune parole per residuo etimologico o che si possono formare nella declinazione o coniugazione (per es. in socie, regie, conscie, sogniamo) –, nei quali ha la sola funzione d’indicare la pronuncia dolce delle consonanti che la precedono (eccettuato il caso che sia vocale sillabica tonica, come in scia, Lucia, o anche atona, come in sciatore, Lucietta). Col problema della pronuncia vocalica e semiconsonantica dell’i è connesso il problema del plurale dei nomi in -io atono. In conformità con i plurali latini del tipo genii, varii (normali perché i e u del sing. genius, varius erano vere vocali sillabiche), in italiano plurali come genii, varii sono stati a lungo (e spesso ancor oggi) usati, con un’applicazione indiscriminata della regola latina anche a parole di tradizione popolare, per cui si formavano artificialmente plurali come dubbii, esempii, epitaffii, ampii, privi di giustificazione storica in quanto l’i dei rispettivi singolari non è mai stato vera vocale; sono state risparmiate, invece, le parole in cui la terminazione -io è preceduta da vocale o da consonante velare, prepalatale o mediopalatale, per es. gaio, occhio, lancio, raggio, taglio, uscio. Il plurale in -i ha però lo svantaggio di non distinguere i nomi in -io da quelli in -o o in altra vocale semplice: oratóri plur. di oratóre e oratòri plur. di oratorio (che hanno diversa pronuncia); per ovviare a questo inconveniente, sono state introdotte grafie come assassinï, assassini’, assassinj, assassinî. Quest’ultima, che delle quattro è la meno rara, è adottata anche nel presente Vocabolario, fatta sempre eccezione per le parole in cui la terminazione atona -io è preceduta da vocale o dalle consonanti c, g, sc, ch, gh, gl (bacio - baci; raggio - raggi; liscio - lisci; occhio - occhi; mugghio - mugghi; artiglio - artigli). Analogam., col problema dell’i vocale o segno diacritico è connesso il problema del plurale dei femminili in -cia -gia -scia atono. Stando alla pronuncia normale, l’i nel plurale non avrebbe motivo d’essere scritto in nessun caso; ma si deve d’altra parte tener conto della possibilità che i latinismi hanno d’essere utilizzati nel verso come parole sdrucciole con i vocale sillabica (es. acacie, conscie). Un po’ per questo riguardo, un po’ per l’innegabile influsso dell’ortografia latina, un’abolizione totale dell’i nel plurale dei femminili in -cia -gia -scia non è stata mai proposta né messa in pratica. Considerato però che ben pochi riuscirebbero a distinguere a prima vista i latinismi a cui riservare la conservazione dell’i nella scrittura del plurale, si è largamente diffusa negli ultimi decenni (ed è applicata anche in questo Vocabolario) una regola semplificata, che rispetta la distinzione etimologica nella grande maggioranza dei casi e ha il vantaggio d’un molto più facile apprendimento: si scrive -cie -gie quando il c o il g è preceduto da vocale (es. socie, regie, secondo l’etimologia; camicie, ciliegie, contro), -ce -ge quando il c o il g è doppio o preceduto da altra consonante (es. facce, fogge, once, cosce, secondo l’etimologia; orge, province, consce, contro). 2. I prostetico: è così chiamato in linguistica l’i che viene premesso a parole comincianti per s impura quando nella frase vengano a trovarsi precedute da consonante: es. in Isvizzera, in istrada, per iscritto, per isbaglio. Il fenomeno ha la sua lontana origine nel latino volgare, e in altre lingue romanze ha avuto sviluppi più estesi che in italiano: all’it. spada fanno riscontro il fr. épée, lo spagn. e port. espada, in cui la vocale prostetica s’è fissata alla parola indipendentemente dal contesto. 3. a. I lungo: nome dato comunem. alla lettera j, altrimenti detta iod o iota. b. I greco: nome frequente della lettera y, altrimenti detta ìpsilon (che è invece nome più frequente per indicare la corrispondente lettera, υ, dell’alfabeto greco). Usi più comuni della lettera i, I come abbreviazione o simbolo: nella forma maiuscola puntata, è abbreviazione di nomi proprî che cominciano con i, come Italo, Ilio, Isidoro, Irene, ecc.; senza il punto, è sigla automobilistica e aeronautica dell’Italia. Nella numerazione romana, I è segno del numero 1 (quindi II = 2, III = 3; posposto a numeri di valore maggiore indica addizione, preposto indica invece sottrazione, per cui VI = 6, XII = 12, mentre IV = 4, IX = 9, ecc.); vale anche come numero ordinale: I = 1°, primo, II = 2°, secondo, ecc. In chimica, I è simbolo dell’elemento chimico iodio; come prefisso, i- indica un composto otticamente inattivo o è abbreviazione di iso- (per es., isobutano o i-butano). In matematica, i è il simbolo dell’unità immaginaria, tale che il suo quadrato è uguale a −1 (i2 = −1). Nel codice alfabetico internazionale, la lettera i viene convenzionalmente identificata dal nome India.

Relazione 8 ottobre 2008 a cura di Gigi De Santis

(ideatore e fondatore dell’associazione «Centro Studi “Don Dialetto» e del sito web «dondialetto.it»)

La consonante straniera: J (i lunga)

La j (i lunga) era molto usata da noi nei secoli passati; come curiosità diremo che fu introdotta nel nostro alfabeto dal letterato e poeta vicentino Gian Giorgio Tríssino (1478-1550), un vero benemerito della nostra ortografia se non altro per essere stato colui che riuscì a imporre l’utilissima distinzione tra la u e la v, che prima di lui erano rappresentante da un sol segno, quello della v. Questa j, oggi quasi del tutto scomparsa nella nostra ortografia, si usava normalmente quando era iniziale di parola seguita da vocale (jeri, jattura, Jacopo) o nell’interno di una parola tra due vocali (aja, fornajo, cesoje). Si usava anche in fine di parola, come terminazione plurale dei nomi in –io àtono, cioè con la i non accentata: beccajo, beccaj; vario, varj; studio, studj. Oggi, come si è detto, è un segno che va scomparendo ogni giorno di più, perché perfino certe scritture tradizionali, come Jonio, Jugoslavia, Ajaccio, juta e alcune altre si preferisce scriverle, ed è bene, Ionio, Iugoslavia, Aiaccio, iuta. Analogamente raccomandiamo di scrivere Iesi e non jesi; Iolanda e non jolanda; iole (imbarcazione) e non jole; iugoslavo e non jugoslavo. In quanto a jungla diremo che è addirittura una grafia sbagliata, in quanto è stata coniata ricalcando l’inglese jungle, che usa la j per sue precise ragioni fonetiche; il termine deriva infatti dall’indiano giàngal, e perciò l’esatta grafia italiana di questa voce non può essere che giungla. Per concludere sulla j lunga, aggiungeremo che essa resiste solo in certi cognomi, per ragioni anagrafiche e anche storiche, come Maraja, Ràjna, Jaja, Ojetti, Pistoj, Flajani, Ojoli, eccetera. (Libro: Come Parlare e Scrivere Meglio: Guida pratica all’uso della lingua italiana, Editore Selezione dal Reade’r Digest, Milano, 1985).


Le lettere straniere

j J (i lunga): un tempo era usata in italiano per indicare graficamente la i semiconsonante (jeri) o la doppia i delle desinenze plurali (vizj) e veniva pronunvciata a tutti gli effetti come una i. Anche oggi, nei rari nomi propri in cui è stata conservata, la j mantiene il suono di una i: Jugoslavia, Jolanda (ma ormai sono più diffuse le forme Iugoslavia e Iolanda). Invece, nelle parole di origine straniera mantiene il valore consonantico della lingua d’origine. Nelle parole inglesi, per esempio, la j (=gei) si pronuncia come una g palatale (dolce): jeans (=gins), jet (=get). Di fatto, quando le parole straniere che la contengono vengono italianizzate, la j si trascrive come una g. palatale: jungla = giungla.
(Libro: Grammatica Essenziale della Lingua Italiana, Federico Roncoroni, Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 2005).

La j è in forte regresso dice il Migliorini (Storia della Lingua Italiana, Sansoni, Firenze, 1961). “La Crusca”, che l’ha abolita sia all’inizio che all’interno di parola (iattura, gennaio), l’adopera invece nei plurali dei nomi in “io” (studj) e un certo numero di studiosi la seguono (D’Ancona, Monaci). Altri si attengono a criteri diversi: il Mestica, per es. scrive ‘gennajo’, ma ‘studii’. Gli avversari della j non mancano di attaccarla, anche con colpi mancini: “L’uso della j cominciò tanto o quanto colla venuta degli stranieri in Italia, con l’uscita degli stranieri pare che vada cessando (Petrocchi, Diz. s.v.)”; (...) “qualcuno tuttavia la difende non senza buoni argomenti; ma in complesso anche quelli che ritengono non ragionevole questa eliminazione accettano l’opinione dei più” (così appunto si esprime la grammatica del Morandi e Cappuccini). Il Malagoli, nell’eccellente volumetto sull’Ortoepìa e Ortografia italiana moderna (2ª ed. Milano, 1912, pp. 26.27), è incline all’ ‘i’, e si lagna solo della scarsa coerenza di molti. Ora diciamo noi qualcosa in proposito: anche la Crusca si regolò male, quando l’adoprò nei plurali dei nomi in ‘io’ (studj) perché se la j ha valore di semiconsonante come può mai rappresentare le vocali?».
Aggiungo, per rafforzare quanto detto sopra, la (j) pure nell’alfabeto fonetico è un segno estraneo sia consultando il “Dizionario D’Ortografia e di Pronunzia” a cura di Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini, Piero Fiorelli, Edizioni Rai, Torino 1981, 2ª edizione pagg. XVII-XVIII-XXIV, sia il “Vocabolario della Lingua Italiana” a cura dell’Istituto Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani, Roma 1986, vol. 1 pagg. XXXIII-XXXIV e nel vol. 2 pag. 1019 alla consonante ‘J’: “Segno alfabetico, che non costituisce una lettera a sé dell’alfabeto latino o italiano, ma è una variante grafica della i, introdotta nella scrittura latina medievale come forma allungata in basso di i, I: la minuscola come variante di i dopo altre lettere con aste verticali (i, m, n, u) e spec. in fine di parola o di numero (iudicij, xiij), la maiuscola come variante di I in posizione iniziale. Soltanto dal sec. 16° j fu adottato per indicare la funzione consonantica o semiconsonantica; e mentre in altre lingue indicò e indica suoni nettamente differenziati da i, e cioè <∫> in francese, <ğ> in inglese, in spagnolo, ecc., l’italiano lo adoperò con due funzioni diverse: tra vocali, o l’inizio di parola davanti ad altra vocale, per indicare il valore semiconsonantico dell’i (per es. jeri, pajo), rappresentato peraltro dal semplice i in ogni altra posizione (per es. fiore, coppia); in fine di parola, come terminazione del plurale dei nomi in –io atono (per es. beccaj, varj: residuo evidente della più antica grafia, ital. e lat., varij), non per indicare un suono diverso dal comune i vocale, ma solo per evitare ipotetiche confusioni con altre parole (per es. beccai pass. rem. di beccare, vari plur. di varo). Tanto nella prima quanto nella seconda funzione, l’uso dell’j in parole italiane è quasi interamente scomparso tra la seconda metà del sec. 19° e la prima del 20°; è tuttora conservato ufficialmente nella scrittura d’un certo numero di cognomi (per es.
Jaja, Ojetti, Pistoj, tali essendo le forme registrate dagli uffici anagrafici) e di nomi propri in genere (per es. Ajaccio, l’Aja), mentre si hanno oscillazioni, con preferenze personali e senza criterio fisso, per la semiconsonante iniziale di nomi propri quali Jacopo, Jonio, Jugoslavia, o comuni quali junior, juta (rari ormai o quasi scomparsi jettatura, jodio)”.

Nella “Grammatica Italiana” (seconda edizione migliorata, ottava ristampa) di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone, Loescher Editore, Torino, 1980 pagg. 36-37, evidenzia la netta eliminazione e qual era la giusta posizione della consonante straniera in questione: “La lettera j (si chiama j lunga) era un tempo in uso nella nostra ortografia con il valore di semiconsonante (come in jeri, jattanza, ecc.; e si suole scrivere ancora in Jacopo, Jacopone, Jolanda, ecc.); si usava per rendere con una sola lettera i plurali in –ii (gli studj, i principj, ecc.) e s’incontra tuttora in qualche cognome (lo scrittore Rajberti, Ugo Ojetti, il filologo Pio Rajna, ecc.) Nel latino aveva questa funzione semiconsonantica, che in italiano ha dato il suono gi (jam – già, justitia –giustizia, judicem – giudice, juvare – giovare, juvenis – giovane, ecc.). Così suona nelle lingue francese e inglese (giarrettiera deriva dal francese «jarretière», bigiotteria da «bijouterie», giurì dall’inglese «jury», pigiama da «pyjamas», ecc.); e si veda qualche altra parola diffusa in italiano: jazz (abbreviato da jazzband, pron. gèzzbènd: orchestra e
musica di tipo americano; jockey (pron. giòche: fantino nelle corse ippiche); jolly (pron. giòli: carta da gioco di speciale valore), ecc.”.

In più, la “Carta dei dialetti italiani” fondata dall’esimio professor Oronzo Parlangèli (massimo studioso di linguistica e dialettologia, pugliese della città di Novoli, titolare delle cattedre di Glottologia nelle Università di Messina e Bari), prematuramente scomparso il 1° ottobre 1969 all’età di 46 anni. Termino citando un passo dei lessicografi Fernando Palazzi e Gianfranco Folena: «…oggi il plurale dei nomi terminanti al singolare in io non accentato si fa normalmente con la terminazione i (una i sola), e perciò anche l’uso della j, invece delle due i è scomparso; e quand’anche si debba usare le due i, per evitare equivoci, si preferisce mettere le due i piuttosto che usare la j, essendo ormai estranea all’ortografia italiana».

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